Fino a non molto tempo fa al centro del dibattito nel nostro Paese c’era la ricerca del lavoro e soprattutto del cosiddetto “posto fisso”. Da un po’o di tempo invece stiamo assistendo ad un inaspettato cambio di prospettiva. Passata la grande paura della pandemia tra gli italiani è aumentato il senso di insofferenza verso la propria busta paga o più in generale verso come si è “trattati” al lavoro. Anzi, proprio il mancato supporto da parte delle aziende durante i mesi più duri dei lock-down, la scarsa meritocrazia e la chiusura rispetto alla domanda di flessibilità sono state alcune tra le cause di un’insoddisfazione diffusa. Insoddisfazione che sta portando sempre più persone a domandarsi se vale la pena cambiare lavoro e con sempre maggior frequenza la risposta sembra orientarsi verso possibili mutamenti volti a migliorare, quanto meno, la qualità della vita.

Sembra sgretolarsi ormai il mito del posto fisso mentre crescono alcuni nuovi fenomeni sociologici come quello delle “Grandi dimissioni” o della YOLO (you only live once) generation, punte dell’iceberg di un malcontento sempre più esteso. Le indagini sul perché si verifichino questi fenomeni sono ancora in atto e di sicuro la pandemia li ha incentivati. Con il Covid infatti la vita ci è apparsa in tutta la sua precarietà spingendoci a rimodulare la scala dei nostri valori e a dare priorità ad alcune profonde considerazioni e riflessioni interiori, soprattutto in riferimento alla work-life balance. Pertanto, individuare un’unica ragione come causa di insoddisfazione è un esercizio impossibile e sicuramente sbagliato: è senz’altro un mix di fattori che spinge a cercare di cambiare la qualità della propria vita. Tant’è che oltre agli elementi standard come retribuzioni e sicurezza contrattuale emergono nuove istanze non negoziabili per i dipendenti che oggi danno importanza alla realizzazione personale, non avendo paura di mettersi in discussione e rinunciare al lavoro attuale se non soddisfatti. Quasi il 50% degli italiani indica infatti tra i requisiti irrinunciabili della nuova occupazione un maggiore equilibrio personale, livelli minori di stress e più tempo da dedicare a sé stessi.

Tuttavia l’insoddisfazione sembra farla da padrone: da una recente indagine è emerso che i lavoratori italiani sono i più tristi dell’Unione Europea. Più del 27% dei lavoratori intervistati mentre lavora è triste e resta in ufficio con stress e rabbia senza prospettive di miglioramento e crescita per il proprio futuro. Molto spesso la causa va ricercata nello scarso coinvolgimento nel proprio lavoro perché è assodato che più le persone sono coinvolte lavorativamente, più sono creative e proattive con relazioni profonde e umore migliore. Il rapporto è direttamente proporzionale: più il lavoratore è felice e più è produttivo. Dalle interviste effettuate emergono dati preoccupanti: per due terzi degli italiani (77%) “il lavoro è importante nella vita” ma meno della metà (49%) lo ritiene realmente in grado di offrire uno scopo. Per il 60% la vita personale è più importante di quella lavorativa. Oltre metà (53%) dichiara addirittura che, se i soldi non fossero un problema, sceglierebbe di non lavorare affatto. Il mancato fattore motivazionale unito alla poca attenzione al benessere e alle esigenze personali fanno sì che in Italia si lavori solo per dovere, principalmente per arrivare a fine mese, come se non ci fosse altra scelta. In questo difficile panorama è innegabile che una grande responsabilità va attribuita alla classe dirigente italiana del tutto incapace, in tutti i settori, di gestire le proprie risorse e di motivarle.