Tornato dalle vacanze, dopo le solite incombenze di fine estate, il mattino successivo all’arrivo a casa aprii la cassetta della posta. Ero già convinto di dover gettare tutto il contenuto nei bidoni della carta per la differenziata, quando vidi confusamente, tra i numerosi ed inutili volantini delle offerte dei prodotti alimentari, un cartoncino viola con sopra, bene impressa, la sigla PT di Poste Italiane. La cartolina conteneva un avviso che mi comunicava che mi era stato spedito un plico raccomandato, in giacenza presso l’ufficio postale del mio quartiere. Alquanto sorpreso, controllai bene e appurai che ero proprio io l’intestatario e che di qualunque cosa si trattasse, di lì a fine giornata, sarebbe stata rinviata al mittente. Mentre andavo a ritirare il misterioso plico, mi dicevo che non avevo fatto in tempo neppure a rientrare che già ero stato risucchiato dalla più grave nevrosi dei nostri tempi, la fretta. Mi fu consegnato un contenitore di forma cilindrica, come quelli che usano gli studenti della facoltà di architettura. Tornato a casa, accingendomi ad aprire il contenitore, guardai di nuovo il mittente: era fuori di dubbio il mio fraterno amico Xavier. Non vi dico la sorpresa, il contenuto del plico consisteva in una pergamena di carta pecora, sicuramente molto costosa, in stile amanuense che conteneva un messaggio: “non è più il tempo di dover fare le cose, esso non si manifesta più. A nulla serve cercare, il tempo di dover viene quando vuole, o meglio le cose vengono quando vogliono, indipendentemente  dal  fiume esistenziale universalmente conosciuto come tempo,  con  l’andare avanti  della  vita il  tempo diventa spazio in cui fluttuano le  cose,  non  più  un  fiume  che  alle  cose  ti  porta, ma un  oceano  nel  quale  le  cose  vanno  alla  deriva  in  balia  di  imperscrutabili correnti  che  te le  avvicinano o te  le  allontanano. Tutto questo in una dimensione non tridimensionale ma quadrimensionale.

Proprio lì sono sospese, né in alto né in basso, né di qua né di là, non è dato sapere. Il dovere è svanito insieme al tempo, non è più in tuo potere, non ti porta più alle cose, le cose ti investono, ti colpiscono non le cerchi più, sono loro a cercare te. Di solito a questo stadio intuisci quanto è vacuo il dover fare, come è stata illusoria la convinta sensazione di aver fatto cose nel tempo. Come un piccolo turacciolo di sughero che galleggia  in  un liquido nel quale i poveri e limitati sensi non riescono a percepirne l’infinita vastità. Ti aggrappi e non sai a cosa, continuando a galleggiare e fluttuando nel miraggio di un approdo. Ma non c’è ristoro, non saprai mai se hai colto appieno ciò che ti è stato dato, se hai saputo usarlo bene per quel che ti hanno insegnato. Eppure continui a pensare e concludi con uno scritto di Wislawa Szymboaska: il rogo  che divampò tutta la notte e che arse fino alla più profonda radice. Alla prima schiarita si affievolì, perse di impeto e vigoria, muto il suo rauco ruggire in un balbettante crepitio. Poi tacque per sempre. Era l’ultimo fuoco concesso dagli dei nel tardo autunno. Non ce ne saranno altri, basterà un Everest di cenere per seppellire questa manciata di bracci che ancora si ostinano a bruciare?”

Ancora una domanda Xavier. L’ho letto e riletto: ne ho apprezzato la grafica e il prezioso materiale dove è riportato il messaggio. Ogni volta che guardo l’elegante messaggio di Xavier, mi sembra di coglierci qualcosa di diverso. Ho quindi deciso di conservarlo così ricevuto. Mi auguro e spero abbiate fatto buone letture durante le ferie. Se poi avete continuato a smanettare su qualche tastiera, beh, contenti voi…
Vi saluto e sono L’autoferroagricolo!