Ne parlano tutti, è la serie Netflix del momento: la Regina degli Scacchi, traduzione italiana un po’ forzata di The Queen’s Gambit (letteralmente “Gambetto di Donna”, un’apertura di scacchi che ben si presta al gioco di parole), è forse una delle nuove proposte meglio riuscite della casa di produzione americana. Tratta dal romanzo di Walter Tevis, con la sua protagonista innovativa e moderna è riuscita a sorprendere tutti gli spettatori. Ma la domanda che ci poniamo è: perché questa serie piace così tanto? Elizabeth Harmon, personaggio chiave della mini-serie, nell’ultimo episodio viene definita “l’eroina dei bassifondi”. Mentre torna sui luoghi della sua vita, osserva la roulotte in cui abitava prima della morte della madre biologica e dice: “avevamo i soldi ma vivevamo qui.” Sebbene la storia di Beth sia ben sviscerata nei sette episodi, gli interrogativi sulla sua infanzia restano forti: non sappiamo che fine abbia fatto il padre, né tantomeno perché la madre abbia deciso di morire trascinando con sé la figlia di nove anni, per fortuna sopravvissuta. Ma questo alone di mistero contribuisce alla costruzione di un personaggio altrettanto enigmatico; uno dei punti di forza della serie è proprio la narrazione segmentata, il mostrare le cose direttamente dal punto di vista di Beth, per cui noi siamo solo spettatori di una storia di cui non sappiamo niente. Ed è così che si avverte ancora di più la sua sofferenza, ci si immedesima in una figura che altrimenti ci affascinerebbe e basta; così, gradualmente, si costruisce e si diventa un topico genio tormentato. A 9 anni Beth impara a giocare a scacchi. Siamo negli anni ’60 e nell’orfanotrofio dove cresce prende pillole per calmare il suo umore. Ogni volta che le ingerisce, vede scacchiera e pezzi muoversi sul soffitto del suo dormitorio. Il volto impassibile, lo sguardo concentrato, e rigioca le partite perse con il custode della scuola.
Insomma, il suo genio si avverte già; ma è un genio realistico, un genio che va coltivato con lo studio incessante, non un qualcosa di innato. Beth non vince tutto e subito: legge tanto, approfondisce le sue partite, e perde più di una volta per imparare dai suoi errori. Ed è così che diventa un piccolo prodigio e a nove anni vince contro tutti i migliori scacchisti del college che sfida simultaneamente. Il tempo trascorre e il personaggio diventa sempre più complicato, ma non smette mai di caratterizzarsi per il suo realismo; Beth è umana, soffre, e noi soffriamo con lei. Non è l’umile campionessa per cui si è soliti provare simpatia, quella per cui “l’importante è giocare, vincere viene dopo”, anzi; la Harmon è ambiziosa, vuole vincere, diventare ricca e pagare una vita lussuosa alla madre adottiva, diventare la più grande scacchista del mondo e conseguire vittorie perfino nell’allora lontanissima Unione Sovietica. In questo lungo percorso la accompagnano figure diverse, a noi presentate attraverso la lente del suo sguardo; prima il custode dalla scuola, poi la donna che la adotta quando ha 15 anni e proprio i genitori adottivi vengono considerati come le figure genitoriali di cui ha sempre sentito la mancanza. Mentre cresce Beth vive i problemi di ogni adolescente: si abbandona per la prima volta ad uno sconosciuto, prova ad andare alle feste dei club studenteschi, avverte forte la sua inadeguatezza in molti contesti e si innamora, non ricambiata, di un giornalista probabilmente omosessuale. Nel frattempo è troppo grande per essere una bambina prodigio, ed allora deve reinventarsi, trovare altri modi per far parlare di lei. Una delle cose più interessanti della costruzione di questo personaggio è proprio questo aspetto: la sofferenza nel capire che non si può essere piccoli geni per sempre, il dolore dato da una singola sconfitta che sembra annullare tutte le vittorie precedenti. Sembra, da un punto di vista sociologico, quello che Vittorino Andreoli ha definito “il complesso del primo della classe”: un ragazzo abituato ad andar bene a scuola tende a crollare al primo voto negativo. Una lezione importante che Beth insegna anche ad un ragazzino molto giovane contro il quale si trova a giocare: “se a 16 anni sarai campione del mondo, dopo che farai?”
Certo, se in questa sofferenza della sconfitta si inserisce anche il lutto per la morte prematura della madre adottiva di Beth, cadere in un baratro sembra inevitabile. Ed è così che si capiscono tutti i meccanismi che portano il genio alla follia; conseguenze che partono dallo stesso concetto di genio per intersecarsi con situazioni personali che tutti viviamo. Dopo essersi arresa in una delle partite più importanti della sua vita, contro il sovietico Borgov, la giovane protagonista si abbandona alla dipendenza dall’alcol, la stessa che, probabilmente, ha ucciso anche la madre. Gioca solo quando ingerisce le pillole, le sue “medicine”, perché solo quando si droga riesce a vedere i pezzi e nemmeno sempre; crede di essere condannata ad essere folle, e inizia a non presentarsi ai tornei. Si distrugge con le sue stesse mani, ma non si circonda dell’alone di giudizio o tenerezza che tipicamente emanano questi personaggi maledetti; quello che avvertiamo è solo il suo dolore. Se da un lato vorremmo entrare nello schermo per strapparle dalle mani le bottiglie, dall’altro non siamo sicuri che lo faremmo. Così, pezzo dopo pezzo, crolliamo anche noi. L’eroina dei bassifondi non è una vera eroina, e forse è questo quello che ci avvicina alla serie; Beth Harmon è un personaggio che ha parti di sé in ognuno di noi, e questo significa che ognuno di noi può diventare un po’ re o regina degli scacchi. Secondo il New York Times nella sola settimana di uscita della serie TV l’acquisto di scacchiere è aumentato del 125%; moltiplicati anche gli accessi alle piattaforme online di scacchi, delle quali molte hanno aggiunto la funzione “gioca con Beth Harmon” che consente di sfidare un computer che simula le abilità della scacchista a 9, 15, 17 e 20 anni. Infine, anche le celebri pose della protagonista sono diventate un must che, talvolta, ci si ritrova a replicare involontariamente. Insomma, dire che la Regina degli Scacchi sia stato un successo è riduttivo: è stato ed è ancora un fenomeno, a cui sicuramente ha contribuito l’isolamento sociale e la struttura del personaggio. L’episodio finale è una carezza gentile. È il riscatto, sono le vittorie accumulate negli anni di incertezza; ma in questo lieto fine non c’è banalità. Beth diventa campionessa del mondo con una partita avvincente, che tiene incollati allo schermo come farebbero, in altri contesti, partite di calcio o di basket; apre con un gambetto di donna (un queen’s gambit, per l’appunto), incalza l’avversario Borgov, lo costringe ad arrendersi.

I sovietici sono difficili da battere, le ripetono per sette episodi, loro giocano di squadra. E allora gioca di squadra anche lei: tutti gli scacchisti che ha battuto o con cui ha avuto una relazione, anche solo di amicizia, riuniti in uno stesso posto a ragionare telefonicamente con lei della partita. E questa unione che non aveva mai visto ha anche un altro riscontro: Beth è una donna, ed è un’americana in Russia durante la Guerra Fredda; ma questo non le impedisce di essere acclamata ed elogiata anche dagli scacchisti del posto, e di terminare la serie con un’esortazione a giocare ad un anziano russo di un circoletto. Insomma, l’apoteosi del gioco di guerra che diventa tramite di pace. Ma c’è una cosa ancora più importante in quest’ultimo incontro: la protagonista alza gli occhi al cielo e vede una scacchiera, la stessa che credeva uscisse fuori solo dalle sue pillole. Ed allora mentre guardi questa scena ti viene quasi spontaneo alzarti e sussurrare “non sono mai state le pillole, Beth, sei sempre stata tu”. E sulle note finali, guardando sul tuo letto la scacchiera appena arrivata, in un giorno di zona netflix, , pensi “e posso sempre esserlo anche io”.

Irene Mascia