Ripartenza. Questa è la parola d’ordine post pandemia da Covid-19. Il mondo intero deve ripartire, l’Europa deve ripartire. E per farlo, lo scorso luglio, l’UE ha approvato il Next generation EU, noto in Italia come Recovery Fund o “Fondo per la ripresa”. Si tratta di un fondo speciale, uno strumento innovativo, volto a finanziare la ripresa economica del vecchio continente nel triennio 2021-2023 con titoli di Stato europei (Recovery bond) che serviranno a sostenere progetti di riforma strutturali previsti dai Piani nazionali di riforme di ogni Paese: i Recovery Plan. Lo stanziamento complessivo è di 750 miliardi di euro, da dividere tra i diversi Stati. L’Italia e la Spagna sono tra i maggiori beneficiari di questa misura.

In Italia il Recovery Plan, approvato il 12 gennaio scorso, è stato denominato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e tra le missioni strategiche vanno sicuramente menzionate la digitalizzazione e l’innovazione, la transizione ecologica, l’inclusione sociale. Un intero capitolo del Piano è intitolato “Intermodalità e logistica integrata” ed in questa sezione sono illustrati quattro obiettivi: potenziamento della competitività del sistema portuale italiano in una dimensione di sostenibilità, sviluppo delle infrastrutture intermodali e realizzazione dei collegamenti di ultimo miglio dei porti; sostenibilità ambientale ed efficientamento energetico dei porti (Green Ports); digitalizzazione della catena logistica e del traffico aereo; riduzione delle emissioni connesse all’attività di movimentazione merci.

Analizzando il documento, però, a fronte delle dichiarazioni d’intenti le risorse per l’intero capitolo sono scarse e soprattutto il progetto Porti d’Italia si focalizza, in special modo, su due scali, Genova e Trieste (per il primo si parla della nuova diga foranea e per il secondo del progetto Adriagateway, che potenzia la logistica e i collegamenti ferroviari). Altri porti, tra cui Napoli, sono citati nell’ambito del programma Italia Veloce per interventi come l’ultimo miglio ferroviario e stradale, la resilienza delle infrastrutture ai cambiamenti climatici, l’accessibilità marittima, l’aumento della capacità portuale. In buona sostanza la nuova bozza del Recovery Plan sembra puntare, principalmente, sui porti di Genova e Trieste come due scali internazionali, lasciando i porti del sud semplicemente a scali turistici e per il commercio interno di minor importanza.

Si legge infatti nella prima bozza del PNRR che “i porti maggiormente interessati dall’intervento (Genova e Trieste) sono snodi strategici per l’Italia e per il commercio nel Mediterraneo per i quali si prevede lo sviluppo delle infrastrutture portuali e delle infrastrutture terrestri di interconnessione”. È lampante la drammatica sottovalutazione dei porti meridionali nello scenario logistico nazionale ed è, quindi, preponderante la tesi della loro subalternità rispetto agli scali di Genova e Trieste. Ancora una volta ai porti del Mezzogiorno viene riservato un ruolo marginale assegnando loro in realtà solo due missioni, una legata ai traffici intra-mediterranei ed una allo sviluppo del turismo. Sembra di ritornare al passato e di vivere un déjà-vu su quanto già accaduto per i porti del Sud Italia con “le vie della Seta” laddove è sembrato di assistere a quella che ironicamente si oserebbe definire la “via della beffa”. Ma può riservarsi a questi scali una mera funzione di attrattiva turistica? È questo il modo in cui si fa crescere il sud?

No, sicuramente non è questo l’approccio corretto. Sicuramente non occorre demonizzare quanto accaduto in passato perché, nei porti di Genova e Trieste, grazie alle infrastrutture e, anche, alla loro posizione geografica “strategica” rispetto al resto d’Europa, era concesso alle navi portacontainers provenienti dall’Asia di arrivare velocemente nel cuore dell’Europa. Tuttavia, puntare su uno sviluppo portuale connesso solo alla posizione geografica del Paese è un grave errore di prospettiva. Non è la collocazione geografica ad assegnare un ruolo al sistema degli scali marittimi. Sono piuttosto i sistemi industriali alle spalle della portualità che ne determinano la rilevanza. Il Sud, con i suoi porti, può e deve puntare su un forte comparto di filiere retro-produttive che lo caratterizzano (agro-alimentare, tecnologico, aeronautico). Ed è grave constatare che il PNRR non faccia cenno al rapporto tra manifattura, logistica e portualità. E allora ben venga investire nelle zone economiche speciali (ZES) nei porti del Sud, sebbene siano ancora in attesa di decollo, o anche puntare sul recente raddoppio del Canale di Suez, che può comportare un’ingente crescita dei traffici per i porti del Sud Italia migliorando la competitività del Mediterraneo e alimentandone i flussi commerciali. Occorre, allora, investire in una seria politica mediterranea, guardando verso Sud, verso l’Africa e non sempre e soltanto verso la Germania e il Nord Europa.