Ciao, come va? Spero bene. Era tempo che volevo scriverti, ma non mi era capitato niente di desueto. La paura di tediarti con le mie missive mi ha trattenuta. Ma questa te la devo raccontare. Giunse allo studio, previo appuntamento, con l’intenzione di conferirmi un incarico, una graziosa signora dal nome intrigante, esotico: Sule ima. Entrata nella mia stanza mi trovai innanzi una donna sui quaranta anni circa, di media altezza, molto elegante. Sule ima con l’incarnato color nocciola, profondi occhi nerissimi come i lunghi capelli, esprimeva una particolare grazia nel linguaggio e nel portamento. Mi raccontò di essere nata in un paese nella periferia di Marrakech, in Marocco. Era ormai in Europa da venti anni, lavorava traducendo dall’arabo antico testi di religione, di storia e filosofia per varie università in tutto il mondo occidentale. Mi raccontò di aver stabilito la sua residenza qui da noi perché, quando soffiava il vento da Sud, coglieva in esso i profumi della sua Terra. L’incarico allo studio riguardava la vendita di alcune proprietà ereditate in Marocco. La signora non poteva seguire la cosa essendo già impegnata nello studio di alcuni tomi antichi. Visto che i preziosi testi si trovavano presso un museo in un paese di lingua Anglo-Sassone, dove era attesa, sarebbe partita di lì a pochi giorni. Accettare l’incarico, niente di difficile, solo scartoffie burocratiche, nulla che la mia assistente Giuliana non potesse fare. Restammo d’accordo con Sule ima che sarebbe ripassata più o meno entro un mese, quando fosse rientrata dal viaggio di lavoro. Tre giorni fa, dopo ben due mesi, Sule ima è passata da me. L’incarico era stato portato a termine e avevo in cassaforte l’assegno da consegnarle. Poiché era venuta senza preavviso fu l’ultima cliente della giornata, completammo in pochi minuti le insolvenze restando poi a parlare.

Era nata tra noi una stima ed una simpatia reciproca, perciò mi decisi ad invitare Sule ima in un locale per un aperitivo. Comodamente sedute su un divanetto parlavamo di noi, del nostro essere donne, dei nostri gusti sulla moda, sul cibo, insomma ci stavamo conoscendo. Ad un certo punto le dissi: “Hai lasciato il tuo magnifico paese, ci sono stata una volta in vacanza, non ti manca?“. “Sicuro”, rispose, “mi manca l’odore delle rose e delle spezie, gli oli aromatici, le albe ed i tramonti. Non manca la condizione del mio essere in quella cultura che mi faceva oggetto e non soggetto”. Quando le chiesi di essere più esplicita mi raccontò che nel paesino dove era nata il capo famiglia aveva l’assoluta autorità sulla moglie e sui figli. Quando compì sedici anni fu chiamata da suo padre che le comunicò che era stata chiesta in moglie da un ricco possidente del posto e come padre aveva acconsentito. Il suo parere contava meno di nulla, a niente valsero le sue proteste, i suoi pianti, il rifiuto del cibo. Fu sua madre a consolarla, a toglierle dalla testa la voglia di azioni estreme. Così all’avvicinarsi del giorno stabilito fu preparata. Portata al bagno pubblico riservato alle donne dove fu accuratamente depilata e massaggiata con creme balsamiche, pronta ad obbedire ai dettati della fede e tradizione, cosa che sfortunatamente avvenne. Il suo sposo era un quarantenne al suo quinto matrimonio, le precedenti quattro mogli erano state ripudiate perché non gli avevano dato figli e perciò considerate sterili, lei era l’ennesimo tentativo. Dopo un anno anche lei fu ripudiata, mentre l’ex marito si guardava intorno ancora una volta. Era chiaro che di sterile c’era solo lui, ma il fatto di essere maschio rendeva impossibile il pensare d’essere lui il difettato. “Non mi voglio dilungare“, disse Sule ima, “su come sono riuscita a fuggire e a studiare per conquistare l’indipendenza. Molto mi manca del mio paese, ma tanto mi fa anche inorridire.” Ci siamo salutate riproponendoci di sentirci ancora, certo è che dopo il racconto non riuscivo a guardare Sule ima negli occhi. Ma come è ancora possibile quest’orrore nel terzo millennio?

Ruja Marr